
L’immigrazione nel nostro paese
L’immigrazione nel nostro paese
Negli ultimi tempi è aumentata l’immigrazione nel nostro Paese, un fenomeno per noi abbastanza recente, mentre negli altri Paesi gli immigrati si sono integrati ormai da tempo.
Vi è una sorta di difficoltà nel controllare i flussi migratori, e si agisce in modo che il numero di persone sia compatibile con gli interessi economici dell’Italia.
Si cercano poi metodi efficaci per consentire un buon adattamento lavorativo e sociale.
Ma l’inarrestabile flusso migratorio ha fatto in modo che se ne occupassero organizzazioni, in modo criminale e fuori dalla legge, gestendo soprattutto il lavoro degli immigrati clandestini.
Questa gente è spesso destinata a un lavoro coatto, ad attività illegali o alla prostituzione.
Inoltre cresce il lavoro minorile e l’asservimento di ragazzi, bambini e donne.
La situazione è veramente fuori controllo, e le misure vengono prese in modo improvvisato, senza impostare i problemi razionalmente, come per esempio il rapporto fra la cultura del Paese d’origine dell’immigrato e quella italiana.
Questi popoli provengono da diversi luoghi e hanno lingue, cultura, religioni differenti.
Bisogna cercare una politica che riesca ad integrare questa gente rispettando le loro origini, ma allo stesso tempo mettere in atto il mandato che Cristo ha dato alla Sua Chiesa. Per anni si parla dei musulmani e dei centri di preghiera che sorgono come funghi in città che osservavano sorprese e preoccupate questa nuova presenza.
Ma oggi oltre un milione di musulmani provenienti soprattutto dal medio oriente e dai paesi Africani, oltre ovviamente a molti altri credenti sikh, induisti, buddhisti e così via. La storia ormai più che centenaria dei grandi flussi migratori ci insegna che la religione, le sue tradizioni e i suoi simboli, costituiscono dei beni preziosi che ogni migrante porta con sè e che, spesso, rivaluta ed enfatizza proprio nel paese in cui finisce per stabilirsi.
La religione costituisce dunque un importante elemento dell’identità dei migranti, la radice forse più solida di una cultura e di una tradizione che, almeno all’inizio del loro percorso di integrazione, essi intendono proteggere con particolare determinazione.
Ho costatato nel mio ultimo viaggio nel Regno Unito, alcune moschee ma anche molte chiese evangeliche, hanno finito per costituirsi come un muro di protezione ma anche di isolamento dal contesto sociale, con effetti drammatici dal punto di vista dell’integrazione.
Ed è proprio dal punto di vista del cristiano che vorrei attirare la vostra attenzione sulla parola lo straniero che oggi chiameremo l’immigrante.
La chiesa in Italia si trova impreparata a tale situazione, non sta riuscendo a cogliere l’attimo della situazione.
Siamo impreparati alla situazione dello straniero che viene a vivere a casa nostra.
Voglio parlarvi sul concetto della parola straniero.
Sono almeno tre i termini fondamentali della Bibbia ebraica per indicare lo “straniero“ o “forestiero“.
Tre termini nei quali si può leggere qualcosa dell’esperienza sofferta e dinamica di Israele e del cammino della rivelazione nel cuore di questo popolo (suggeriscono perciò, in qualche modo, anche a noi una dinamica, un cammino): lo straniero lontano –zar-, lo straniero di passaggio –nokri-, lo straniero residente o integrato –gher o toshav-.
- Primo vocabolo la parola ebraica zarsta a significare lo straniero che abita fuori dei confini di Israele, colui che è del tutto estraneo al popolo.
Verso questa figura si verifica un senso di timore, di estraneità, di paura e di inimicizia.
La paura dello straniero ha quindi delle radici molto profonde nel cuore umano, e viene documentata dalla Scrittura.
C’è anzi un gioco di parole nell’ebraico, che permette di confondere zar (straniero) con sar (il nemico da cui ci si deve difendere).
Un gioco di parole che fa comprendere come Israele si sentisse un popolo piccolo e debole, circondato da popoli potenti che ne insidiano la sovranità.
Da qui la paura e il senso di estraneità verso i popoli vicini aggressivi e prepotenti.
Tra i tanti possibili testi, cito Isaia, là dove compiange le sofferenze della sua gente: “Il vostro paese è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri” (1:7).
È chiaro che “stranieri” vuol dire “nemici” temibili.
Questa considerazione praticamente negativa dei popoli stranieri si evolve verso toni più positivi specialmente dal momento dell’esilio in Babilonia (circa VI secolo a.C.), quando affiora la percezione che l’esilio non ha segnato la disfatta del Dio d’Israele, quasi fosse stato sconfitto da idoli, da dèi più potenti di cui si vantavano gli altri popoli.
Al contrario l’esilio fa prendere maggiormente coscienza della elezione dei figli d’Israele, fa emergere quanto Dio ami il suo popolo e gli affidi una missione in mezzo alle genti straniere. Paradossalmente la sconfitta aiuta a percepire la missione verso gli stranieri.
Richiamo un brano di Isaia, che si riferisce al popolo in esilio: “Io ti ho formato e stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri” (42:6).
Nel capitolo 49:6: “Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la salvezza fino all’estremità della terra“.
Lo straniero allora non è più solo un nemico da temere, ma un popolo da illuminare, e la paura nei suoi confronti si riduce per fare posto a un senso di missione.
Notiamo che una simile coscienza risuona anche nel Nuovo Testamento, per esempio nelle parole di Zaccaria al tempio: Gesù bambino è chiamato “luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele“.
Sono parole che riprendono verbalmente Isaia e segnano il superamento della paura dello straniero verso la coscienza di una missione nei suoi riguardi.
- 2. Il secondo termine, nokri, è usato per lo straniero di passaggio, l’avventizio, colui che si trova momentaneamente in mezzo al popolo per motivi di viaggio, di commercio (una sorta di “pendolare”).Verso il nokrici sono alcune distinzioni che denotano ancora una lontananza, ma non più una paura. Un passo del Deuteronomio fa un elenco di animali puri e impuri, con le distinzioni legali, e dice tra l’altro: “Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darete al forestiero che risiede nelle tue città perché la mangi, o la venderai a qualche straniero, perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio” (14:21). Si mantiene una certa distanza verso gli avventizi e insieme si fanno delle concessioni. Comunque la regola di base è l’ospitalità, tipica della tradizione dell’Oriente, ospitalità che comporta rispetto e buona accoglienza.
Chi di noi ha avuto occasione di andare presso le tende dei beduini, ai margini del deserto, conosce questa ospitalità, questa accoglienza gioiosa. Cito in proposito l’esempio di Abramo, che accoglie tre angeli, a lui stranieri, non membri del suo popolo, si mette alloro servizio e prepara un lauto pasto: “Abramo sedeva all’ingresso della tenda, nell’ora più calda del giorno“, quando si ha voglia di dormire, di abbandonarsi al sonno. “Alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero” (Gen 18:1-4).
Fa quindi preparare focacce e un vitello tenero e buono. È una bella descrizione dell’accoglienza riservata agli stranieri di passaggio, agli ospiti.
- Il terzo vocabolo è ghero toshave viene impiegato per lo straniero residente, colui che essendo di origine straniera e non appartenendo perciò al popolo ebraico per nascita, risiede più a lungo o stabilmente in Israele. Questa figura gode di una vera protezione giuridica, come appare fin dai testi legislativi più antichi: “Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto” (Es 22:20). È un testo da cui emerge una radice più profonda dell’accoglienza allo straniero: la ragione, il motivo del rispetto sta anche nell’esperienza di migrante vissuta e sofferta dal popolo eletto: il popolo è invitato a ricordarsi delle sofferenze passate. Proprio perché tu sei stato forestiero in terra altrui e hai visto quanto sia dura tale condizione, cerca di avere comprensione e misericordia verso coloro che fanno questa esperienza nel tuo paese. Nel corso dei secoli, con la maturazione religiosa avvenuta nell’esilio -cioè nella purificazione e nella sofferenza- e anche con la evoluzione delle leggi e dei costumi, il gher sarà sempre più inserito nella comunità religiosa, come leggiamo in Dt 10:18-19: “Il Signore rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero“.
L’amore per il forestiero è visto quale imitazione di Dio stesso. Emerge un parallelo tra la concezione che il popolo ha di Dio e la concezione dello straniero.
Se Dio ama i deboli, l’orfano, la vedova, lo straniero, noi pure dobbiamo amarli.
Il Nuovo Testamento segna un passo ulteriore e decisivo nel rapporto con lo straniero. Il discorso sarebbe molto lungo e volendo riassumere in breve le motivazioni che nel Nuovo Testamento fondano il comportamento cristiano verso il forestiero, le esprimo così: una motivazione cristologica, una carismatica e una escatologica.
- 1. Il motivo cristologico è ricordato in Matteo 25, nella scena del giudizio finale, là dove Gesù proclama che chi accoglie il forestiero accoglie lui stesso: “ero forestiero e mi avete ospitato … Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me“.
Si dice dunque molto di più del testo del Deuteronomio (Dio ama il forestiero e tu devi imitarlo). L’accoglienza dello straniero non è una semplice opera buona, che verrà ripagata da Dio, bensì l’occasione per vivere un rapporto personale con Gesù.
- 2. Il secondo motivo, che chiamo carismatico, sta nel primato della carità. “Aspirate ai carismi più grandi“, insegna san Paolo in 1Cor 12:31 e, nel capitolo 13 dice che il carisma più grande è la carità. L’accoglienza dello straniero è una delle attuazioni dell’amore, amore che è la legge fondamentale del cristiano. “Ama il prossimo tuo come te stesso“, risponde Gesù a chi gli chiede qual è il primo dei comandamenti, Gesù riassume la Legge e i Profeti nella cosiddetta regola d’oro: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro“. La carità, dono superiore a ogni altro, si esercita verso tutti, quindi pure verso lo straniero, come sottolinea la parabola del buon samaritano. Costui, considerato straniero dal popolo ebraico, non ha esitato a soccorrere un ebreo ferito che si trovava sul ciglio della strada; ha superato le barriere razziali e religiose, “si è fatto prossimo”, ha vissuto il carisma della carità.
- 3. Il terzo motivo che emerge da alcuni passi del Nuovo Testamento è di carattere escatologico, concerne le cose ultime, la destinazione dell’uomo alla vita eterna. In tale visuale, tutti i credenti in Cristo sono pellegrini e stranieri in questo mondo: “Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura“(Eb 13:14; Eb 11:10-16). Dunque, come il ricordo di essere stati migranti e forestieri in Egitto, costituiva per gli Israeliti un invito all’ospitalità verso gli stranieri, ad avere compassione e solidarietà per coloro che partecipavano alla medesima sorte, così i cristiani, sentendosi pellegrini in questa terra, sono invitati a comprendere le sofferenze e i bisogni di quanti sono stranieri e pellegrini rispetto alla patria terrena.
Un cristiano dei primi secoli descriveva lo stato di “pellegrino” proprio del cristiano in un modo molto bello: “I cristiani abitano la propria patria, partecipano a tutto come dei cittadini, e però tutto sopportano come stranieri. Ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera” (Lettera a Diogneto). E non perché i cristiani si disinteressano della città terrena, bensì perché sanno di essere in cammino verso quella città che Dio stesso ci sta preparando. Davvero la Bibbia ci pone davanti a un grande messaggio che sentiamo tanto lontano dai nostri comportamenti, dalle nostre capacità. Ci fa comprendere che la morte di Gesù in croce abbatte ogni frontiera e ci fa membri di un’umanità che trova la sua unità in Cristo. E lo Spirito del Risorto suscita in ogni credente il carisma della accoglienza. Dobbiamo sentire che, sospinti da questa forza, noi possiamo aprirci alla scoperta di Cristo nello straniero che bussa alla nostra porta. Abbiamo tanti motivi, umani e civili, per accogliere lo straniero, motivi a cui forse pensiamo poco e che sono certamente molto esigenti e radicali. E al riguardo rispondo ricordando anzitutto la parola di san Paolo: “Guai a me se non evangelizzo” (1 Cor 9:16). Il cristiano è sempre tenuto a testimoniare la sua fede ovunque e a chiunque, tenendo ovviamente conto della diversità delle situazioni e della molteplicità degli approcci. Bisogna per questo evangelizzare col Vangelo della carità, dell’accoglienza e anche col Vangelo della pazienza. È la prima testimonianza che rende presente il Dio che amiamo.
C’è poi l’evangelizzazione fatta col Vangelo della vita, vivendo l’onestà, la sincerità, la trasparenza nei rapporti di lavoro, l’accoglienza e la mutua fiducia. Infine, il Vangelo della parola, che può essere particolarmente arduo da annunciare in certe circostanze. Sarà necessario cominciare togliendo i pregiudizi, chiarendo le idee sbagliate, crescendo nella conoscenza reciproca. Non dobbiamo però mai tralasciare di proporre la verità, in cui crediamo e che amiamo, nella maniera più adeguata alle singole situazioni, cioè nei tempi e nei modi opportuni.
CONCLUSIONE
Concludo riferendomi al racconto di Luca dei dieci lebbrosi guariti da Gesù, di cui soltanto uno, lo straniero, ritorna a ringraziarlo; e Gesù, stupito e amareggiato, domanda: “Non sono forse stati guariti tutti e dieci? Dove sono gli altri nove? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” (Luca 17: 17-18). Noi ci troviamo più volte tra i nove che non sanno ringraziare, non sanno apprezzare il dono della fede perché lo ritengono quasi ovvio e scontato, e che hanno dunque perso qualcosa della forza evangelizzatrice dei primi cristiani. La presenza crescente di stranieri nel nostro paese è davvero un’occasione provvidenziale per noi di ritornare indietro da Gesù, di guardare alla nostra origine, al nostro battesimo, al dono della fede. Se ci lasceremo invadere dalla gratitudine per tanto dono e lo vedremo bello ed entusiasmante per noi stessi, sarà più facile farlo comprendere e trasmetterlo ad altri.
Nota bibliografica
The Hospitality of God. A Reading of Luke’s Gospel, St Paul’s Publ., Strathfield 2000.
Cardellini (ed.), Lo «straniero» nella Bibbia, EDB, Bologna 1996.
- Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina 2002.
- Schreiner – R. Kampling, Il prossimo, lo straniero, il nemico, EDB, Bologna 2001.